26.08.2009
CATERINA
Ciao a tutti. Io mi chiamo Caterina. Sono nata nel 1900. Allora c’era molta gente che guardava con timore alla fine di quel secolo appena iniziato. Pensavano alla fine del mondo: nel 2000, che vedevano così lontano eppure così nefasto e vicino. Non sapevano che la fine del mondo per ogni essere umano è diversa, perché ognuno la scopre alla fine della propria vita: ognuno di noi porta con sé la propria fine del mondo.
Quando nacqui si fece grande festa in famiglia, perché mamma Rosa, prima di me, aveva perso due bambini e con lei e papà Luigi tutti i parenti mi vedevano come un miracolo.
A quei tempi mamma Rosa era già vecchia per il primo figlio, i suoi 26 anni , dopo 5 di matrimonio, si completarono con la mia nascita. La felicità durò poco, perché presto scoprirono quanto fossi fragile e delicata di salute: avevo problemi a rspirare e bastava un semplice raffreddore per aggravare la mia salute. Mamma Rosa non si fece abbattere da questi problemi e li affrontava con tutti i rimedi conosciuti in quei tempi.
A distanza di due anni nacque Pietro, il mio fratellino che, a differenza di me, sprizzava salute da tutti i pori. Mentre io crescevo circondata da ogni premura, Pietro faceva altrettanto, e, nel giro di pochi anni sembrava lui il più grande di noi due. Io mangiavo poco, ma lui non ne aveva mai abbastanza.
A cinque anni, spostarono il lettino di Pietro che fino ad allora aveva dormito con me nella stessa cameretta. Questo mi procurò un po’ di dolore e mi sentii più sola, ma lui non poteva rimanere in quella stanza sempre piena di vapori così intensi che mi aiutavano a respirare.
Fu a sei anni che mi ammalai per la prima volta molto seriamente. Ricordo che ero alla finestra e guardavo Pietro che giocava con gli altri bambini. Era una bella giornata di fine estate ed il tempo era meraviglioso. La mamma mi aveva insegnato che non potevo correre come facevano gli altri bambini, perché sudavo e, un colpo d’aria poteva essermi fatale. Quel pomeriggio ero aggrappata ai vetri della finestra e guardavo fuori quei bambini in calzoncini corti che correvano e saltavano come puledrini e mi accorsi che la mamma mi guardava in modo strano. Capiva quanto mi mancava la vita all’aria aperta e il contatto con gli altri bambini. Decise, che, se non avessi corso potevo uscire sull’aia. Mi mise le calzine, il cappellino e mi fece accomodare in un posto ombroso.
Com’era bello respirare quell’aria pulita, sentire le grida dei bambini che giocavano, il canto degli uccelli e degli altri animali. Mi persi in quel misto di rumori e di odori tanto che quasi non mi pesava respirare. Fu una bellissima giornata quella. Pietro e gli altri bambini vennero a giocare vicino a me e mi girava la testa tanto era l’allegria di quel momento. A cena, quella sera, mangiai tutto quello che avevo nel piatto, mi sembrava di essere un’altra bambina.
Poi di notte cominciai a tossire. La mamma mi sentì e corse subito da me. Mi sono sempre chiesta come facesse a sapere se respiravo bene o avevo qualche problema, perché al primo respiro affannoso era subito accanto a me. Avevo la febbre, faticavo a respirare e tossivo. Ricordo che vomitai tutto quello che avevo mangiato a cena. Mamma Rosa fece bollire dell’acqua, e quei suoi infusi penetrarono nei miei affannosi respiri. Poi mi massaggiò sul petto con quello strano unguento che mi pizzicava naso e occhi, mi coprì con un’altra coperta e poi prese una sedia, si mise accanto al mio lettino e tenne la mia manina nella sua. Sentivo che pregava e invocava S. Caterina e nel bisbiglio sentivo “S. Caterina, aiuta la mia bambina”. Quante preghiere e quante invocazioni a S. Caterina ho sentito nel corso della mia breve vita. Rimasi in quelle condizioni per due settimane. La mamma non lasciava mai la mia mano, pensava di trasmettere a me un po’ della sua vita e aveva paura che, se l’avesse tolta, quel flusso potesse interrompersi. Intanto papà Luigi pensava a Pietro, Lo lavava, gli faceva da mangiare, insomma cercava di continuare quella vita che tutti loro possedevano. Ogni tanto entrava nella mia cameretta, mi guardava con tenerezza e guardava sua moglie che soffriva per la sua bambina. Allora appoggiava una mano sulla sua spalla e le baciava i capelli e si sentivano uniti più che mai nel dolore. Anche Pietro veniva a trovarmi e faceva ogni sforzo per rimanere seduto un po’ con me. Ricordo i suoi occhi così grandi che mi guardavano in quel letto, e non ho mai capito cosa vedesse in me realmente.
Venne anche il dottore che mi picchiettava sulla schiena, mi premeva la pancia, mi guardava in gola e poi usciva a parlare con la mamma.
Non so se fu un miracolo o le cure costanti della mamma, ma un po’ alla volta mi ripresi e tornai come prima.
Certo dovevo rimanere in casa e la mamma escogitava ogni gioco, canto, lavoretto pur di non farmi pesare la situazione. Cominciò anche ad insegnarmi a leggere e a scrivere e questo mi piaceva molto, più che disegnare o colorare.
I mesi e gli anni si trascinarono senza troppi alti e bassi. Pietro cresceva forte come un torello, così diceva sempre papà, mentre io crescevo poco e respiravo sempre più con difficoltà.
Ogni giorno nel mio piatto c’erano i cibi più saporiti, più nutrienti che io assaggiavo soltanto. Non venivano comunque buttati, perché Pietro era sempre disposto a finirli.
Mi stupiva anche il suo comportamento: fuori casa, con i suoi compagni, era il tipico maschiaccio, ma in casa, camminava quasi in punta di piedi, non urlava e mi trattava come se potessi rompermi fra le sue mani. Ora lo so: era un bambino sensibile che mi amava e aveva accettato la situazione.
La finestra era diventata il mio occhio sul mondo e guardavo lo svolgersi delle stagioni. In primavera Pietro mi portava il primo fiore che vedeva sbocciare, poi il primo gambo di grano mautro e la foglia ingiallita staccata dalla quercia, ed in inverno entrava in casa di corsa con un ghiacciolo per farmi toccare quanto fosse freddo.
Quegli anni furono una pena per tutti, anche se tutti facevamo finta di niente, ma non era quella la vita vera, per nessuno di noi.
Avevo dodici anni quando mi ammalai molto seriamente, ed io capii subito che non era come le altre volte: questa volta era diverso.
Fui nel mio lettino e di nuovo quei forti odori pungenti mi ricordavano come era stato sei anni prima: si ripeteva tutto nel medesimo modo, ma facevo molta più fatica a respirare.
I vapori, i cataplasmi sul petto, le preghiere e le invocazioni a S. Caterina, tutto sembrava essere inutile.
La mamma, vicino al mio letto, mi teneva la mano nella sua. Quanti giorni erano passati? Avevo perso la nozione del tempo. Ogni tanto percepivo una voce, un suono, un rumore ma non li distinguevo; l’unica costante era la mano di mia madre che teneva la mia.
Ad un certo punto , il mio respiro sembrò fermarsi e la mamma stringeva ancora di più la mia mano, sembrava dicesse “non andartene, non ancora, resta ancora un po’ con me”. Ed io facevo di tutto per accontentarla, ma quando dolore mi costava! E po vennero “loro”. Erano tanti bambini che mi guardavano, mi aspettvano. Erano ai bordi di una strada talmente luminosa che poteva accecarmi. Stavano aspettando me, ed io ero pronta ad andare con loro, tanto erano belli e sereni. Non dicevano niente, erano lì, per quando fossi stata pronta per loro. Non so come era il trascorrere del tempo, se erano passati minuti, ore o giorni, per me non aveva più importanza. Ogni tanto si aggiungevano altri bambini e, vedendo che ritardavo, si sedettero ai bordi di quella strada luminosa in paziente attesa.
Da una parte c’erano loro che mi trasmettevano ogni sensazione bella, dall’altra c’era la mamma che non voleva che la lasciassi, ed io ero combattuta, non sapevo cosa fare.
Intanto, ogni respiro che facevo era un dolore immenso, ma la mamma, la mia dolce mamma, mi voleva ancora con sé. Io volevo andare con quei bambini che mi aspettavano ma non volevo dare un dolore così grande alla mia mamma. Così tenevo duro, e con quel grande dolore nel petto cercavo un respiro dietro l’altro. Vedevo le sue lacrime, sentivo il suo dolore che era ncora più grande del mio perché l’aveva nel suo cuore e ce la mettevo tutta per resistere: solo per lei.
“Mamma, perché non mi lasci andare? Perché mi fai soffrire così?” Non so se lo pensai soltanto, ma lei lo capì. Capì che il suo amore doveva essere quello più grande, capì che era giunta la mia ora ma non ci riusciva a lasciare quella mia mano sempre più fredda.
“Amore mio, ovunque andrai, non sarai mai lontana da me.” Questo mi disse e mi lasciò la mano.
I bambini, che fino ad allora erano rimasti seduti in paziente attesa si alzarono, sorrisero e mi tesero le loro mani. Non sapevo da chi andare: erano tutti così belli e tranquilli, ma non ci fu bisogno di scegliere. Venni circondata da tutti loro ed inseme ci incamminammo per quella strada così luminosa. Mi resi conto con sorpresa che non sentivo più dolore, che ero felice, che potevo correre, saltare, cantare e toccare tutti quei bambini: finalmente stavo bene ed ero felice.
Mi voltai indietro e vidi la mamma distrutta dal dolore, papà impietrito e con gli occhi lucidi ma Pietro era sorridente, lui aveva capito.
Da quel giorno mamma Rosa si vestì di nero e non cambiò più colore e visse il resto della sua vita con il rimorso di aver staccato la sua mano dalla mia, mentre non era riuscita a capire che quel gesto era la più grande prova d’amore per quella sua sfortunata figliola.
Care mamme e cari genitori tutti, perdere un figlio, soprattutto bambino è un dolore che non ha uguali; ma da qui, noi tutti siamo felici e vi doniamo sempre e comunque un po’ di noi, della nostra acquisita serenità, ma solo se anche voi continuate la vita che vi rimane sulla terra senza dolore ma con gioia. Sappiate che l’amore che ci avete donato nella nostra breve vita è servito a portarci qui. Adesso tocca a noi fare qualcosa per voi: amate, amate, amate.
A presto, mamme e papà di tutti noi.
Caterina